CAPITOLO QUINTO
Il dado e la vita
Il giorno dopo ero a Massaua. Il piroscafo sarebbe partito a notte alta; era attraccato alla banchina principale e vedevo il suo nome a lettere bianche dipinte di fresco. “Forse riuscirò” pensai. Dovevo imbarcarmi, ma soprattutto non lasciarmi prendere. Ripetei più volte a me stesso questa frase.
Era possibile capire qualcosa, con quel caldo, senza prima ripeterselo più volte? Una vuota apatia mi stava conquistando e stetti lì fermo più di un’ora a considerare la triste situazione in cui mi ero cacciato. La licenza era un tranello. M’avrebbero preso a bordo o allo sbarco, a Napoli. Ma dovevo egualmente imbarcarmi e nascondermi, pagando qualche complicità tra il personale di bordo. Dovevo arrivare a Napoli.
Non lasciarsi prendere. Ricordavo la mia partenza dal campo, di notte, la sosta davanti alla baracca del dottore. Là era il dottore; nel suo boschetto di eucalyptus, addormentato nella branda, i giornali sparsi a terra e la macchina per il caffè sul tavolo. Forse aveva la rivoltella sotto il cuscino, e forse vegliava pensando a me. Pensava a me, senz’altro. Con pietà, ma anche indignandosi per il mio tentativo di ucciderlo. E non avrebbe mai saputo ch’ero stato a quattro passi da lui, più di un’ora, tentato di ucciderlo davvero. Ma che vantaggio ne avrei tratto? Fatta la denuncia, egli aveva perduto ogni importanza, s’era salvato; se l’avessi ucciso sarebbe stata una sciocca vendetta, altre imputazioni e sempre un minor numero di complici. Eppure, avevo esitato ad allontanarmi, pensando: “Se la sua pigrizia fosse stata così forte da consigliargli di rimandare la denuncia a domani?”, No, non dovevo illudermi a tal punto sulla pigrizia del medico. “E allora,” avevo detto dorma in pace quest’amico dottore che muove la testa così a sproposito.”
All’alba avevo fermato un camion, dopo aver camminato tutta notte attraverso i campi. E, trascorsa qualche ora, avevo sentito l’alito caldo e salato del mare. “È il mare?”
“Sì, è il mare” aveva risposto il conducente. Tutte le mie irragionevoli speranze s’erano destate ed ero giunto a Massaua canterellando. Ora la città evaporava e il piroscafo era lì pronto, con il nome dipinto di fresco, ma non dava segno di vita. Spirava anzi quell’aria di abbandono che fa presagire un ritardo della partenza, o addirittura nessuna partenza. Sapevo invece che sarebbe partito a notte alta.
Salii la scaletta e mi trovai sulla passeggiata. C’era il buon odore di vernice calda e niente altro, non più quel fiato impercettibile che a volte le cose esalavano sulla terra, attorno a me. Vernice calda, la buona, cara vernice delle barche esposte al sole, un odore che mi stordì di fiducia. Mi addentrai nel salone e qui l’aria era più calda, ma intima. Guardai un divano e mi parve la cosa più nuova del mondo. C’erano anche molte poltrone e, su un tavolo, un vassoio con tre bicchieri di cristallo. Ne presi uno: era un bicchiere alto, leggero e, quando lo toccai con un’unghia, mandò un suono che non sentivo da molto tempo, un suono festivo, pieno di promesse.
Quasi chiamato da quel suono, entrò un uomo seminudo e mi chiese che cosa volevo. Era certo un uomo delle macchine, aveva ancora tracce di olio sulle tempie e l’aria stanca e sonnolenta. Forse era l’unica persona sveglia della nave, le altre dovevano giacere affrante nelle cuccette. Gli dissi che ero lì per imbarcarmi, andavo in licenza. Mi rispose che non era l’ora dell’imbarco e che lasciassi la nave: nessuno poteva imbarcarsi prima dell’ora fissata.
“Sono un ufficiale” dissi. Avevo sbagliato. Appunto perchè ero ufficiale voleva umiliarmi. “Ho la licenza in regola” aggiunsi.
Guardò il foglio senza curiosità, poi disse: “E i timbri? Vada almeno a farla timbrare. E non salga prima dell’ora fissata.”
“A che ora?” chiesi. E non ero capace di intavolare il mio discorso che dal momento della fuga andavo preparando.
“Non lo so” Si mise sulla scaletta mentre scendevo. Timbrare la licenza? Stetti sulla banchina, sotto il sole, prima di decidermi a raggiungere il comando tappa, sulla stessa banchina. una curiosirà più forte d’ogni timore mi spingeva verso quell’ufficio. Il comando tappa era aperto, un soldato in calzoncini corti s’era steso a gambe larghe sotto il ventilatore a pale e guardava il piroscafo, lo guardava fisso senza vederlo con lo sguardo perso che dà il caldo, e la sonnolenza che aggiunge il riverbero. Un carabiniere era anche lui seduto sulla porta, all’ombra, e guardava il piroscafo. Alzava gli occhi sino al fumaiolo, poi contava gli oblò, le barche di salvataggio, di nuovo guardava il fumaiolo e le antenne della radio, e la bandiera sporca e afflosciata. Un altro carabiniere in calzoncini era là in fondo, appoggiato a un arco e si faceva aria con un ventaglio di carta. Guardava il piroscafo, le catene dell’ancora, l’acqua sporca che vagava intorno allo scafo e compitava il nome scritto a lettere bianche.
Nessun altro sulla banchina a quell’ora. Il carico era stato fatto, i facchini indigeni erano nelle loro tane, e dunque sulla soltanto io, il soldato a gambe larghe, e i due carabinieri. Tutti guardavano il piroscafo vuoto, con la sua nostalgia. Scese il fuochista della nave e andò a parlare col carabiniere, non sentivo che cosa stesse dicendogli poi si incamminò verso un bar, col suo passo dondolante e sfiancato.
Era forse il momento buono per entrare nel comando tappa, farsi mettere un timbro sul foglio, che non avrebbero nemmeno guardato. Mi accostai, cercando di non distrarre il carabiniere dalla vista del piroscafo, ma a dieci passi dalla porta, vidi che il carabiniere della banchina si staccava dalla sua contemplazione e si dirigeva verso il comando tappa, forse voleva soltanto fare due chiacchiere col carabiniere e col soldato. Mi fermai e feci finta di interessarmi al piroscafo. Quei carabinieri erano là ad aspettarmi, cos’altro stavano a fare? Non c’erano mai stati tanti carabinieri sulla porta di uffici simili. Aspettavano me, sapevano che là sarei finito, attratto da quei timbri che volevano dire l’imbarco e l’Italia dopo otto giorni.
Ora un altro carabiniere scendeva la scaletta del piroscafo e si riunì ai due che già stavano parlando. Presi lo zaino e mi allontanai, fingendo di cercare qualcosa che avevo smarrito. Ecco, la nave era pronta, una trappola veramente troppo grande per un sorcio così piccolo. Certo, un altro carabiniere stava aspettandomi nel quadrato degli ufficiali, leggendo il giornale, consultando l’orologio, stupìto del mio ritardo. E il soldato che stava a gambe larghe sotto il ventilatore sapeva il mio nome, e se fossi entrato nel suo ufficio avrebbe fatto un cenno al carabiniere, un cenno già convenuto, in modo da impedirmi di far pazzie. E quell’ambulanza già pronta dietro la dogana, col conducente che dormiva come se l’avessero ucciso, era per me. L’infermiere sapeva il mio nome. Lo sapevano tutti, il mio nome.
Non potevo rischiare. Si fa presto a identificare un tenente. Inutile tagliarsi i baffi. Resta la mano fasciata, il colore dei capelli, e altri particolari che il dottore deve aver notato, appunto perché pigro. Non dovevo salire sul piroscafo con le carte in regola, ma salirci di frodo, nascondermi e confondermi con la truppa che avrebbe trasportato. Era un’impresa rischiosa, ma bisognava tentarla. Mentre tornavo verso il piroscafo, due marinai stavano tirando su la scaletta, appunto per impedire che altri impazienti ufficiali salissero ancor prima dell’ora fissata.
Andai al bar e sedetti. Dopo un’ora ero sfinito, vinto, e sarei tornato al comando tappa a costituirmi, se il fuochista passando non mi avesse sorriso, e certo per farsi perdonare la sua scortesia di poc’anzi. Si avviò a gambe larghe, pallido e sfiancato dal caldo. Cercava forse una casa dove trascorrere il pomeriggio, prima di rituffarsi in quella pentola: ma quando lo raggiunsi mi osservò con improvvisa diffidenza. Entrammo in una casa, il fuochista aveva certamente fretta di restare solo con la donna (la vedevo passare seminuda nel vano della porta, cominciava a lavarsi, sfiancata dal caldo anche lei, assolutamente sorda al nostro dialogo), e a fatica si decise ad ascoltarmi. Stette a lungo pensieroso, non si fidava, e infine disse: “Impossibile”.
La donna si stava lavando e mi guardava di sopra il paravento. Le sorrisi, quel volto opaco era ravvivato da un fiocco rosso nei capelli, ed era un volto calmo, sopravvissuto al disastro del corpo. Dunque, le sorrisi e ripresi a convincere il fuochista, che mi ascoltava. Ma vedevo i suoi occhi inespressivi perdersi nello sforzo di quella noia. “Impossibile” ripeté, con uno stanco sbadiglio. Non voleva storie, avrebbe dovuto pagare troppe complicità.
La donna venne a sdraiarsi sul letto, seminuda. Era un’indigena, si sdraiò e ascoltava serenamente i nostri discorsi, nessuno le disse di andarsene, e io pensavo che non capisse. Tale era il caldo che si spogliò e rimase nuda, impassibile, lo sguardo perso e inchiodato al soffitto. Quando io ebbi finito di parlare, la donna senza muoversi (e la sua voce mi sorprese come la più impensata delle sovrapposizioni), disse: “Ma sì, che ti costa?”.
Il fuochista non rispose neppure, si sdraiò sul letto e io temei che si sarebbe addormentato. Allora tirai fuori il denaro e vidi che lo tentava, ma non voleva decidersi. “Debbo sentire prima gli amici” disse infine, ma mi parve pentito di aver promesso, anche così vagamente. Quando gli lasciai qualche biglietto, si fece più espansivo, promise, avrebbe tentato. Anzi, disse che avrei dovuto trovarmi alle undici all’inizio del molo. La sua faccia era calma e serena, e ora parlava come se fosse uso a simili imprese. Mentre mi asciugavo il sudore vidi (o sbagliavo?) che la donna sorrideva al soffitto, persa in un suo pensiero. La salutai ed ella, improvvisamente pudica, si coprì il ventre con la vestaglia.
Feci provviste per otto giorni e alle dieci ero sul molo.
Vidi un reparto che s’imbarcava, gli uomini salivano allegri. C’era altra gente che passeggiava sul molo, era quello l’unico punto dove spirasse una leggera brezza. Due operai avevano portato le loro brande e parlavano quetamente.
Quando alle dodici venne il fuochista e mi disse: “Impossibile” lo guardai così smarrito che cominciò a scusarsi. Sarebbe tornato a parlare con gli amici. Lo ascoltavo e rammentai il soldato che avevo lasciato solo sul suo autocarro capovolto alla prima discesa del fiume: il fuochista stava parlando come avevo parlato io, sapendo che non sarebbe tornato. Gli diedi, allora, una lettera per Lei, che avrebbe impostato in Italia, una lettera scritta con infinita cura, non l’avevo quasi toccata. Le dicevo che non stesse in pensiero, che tutto quanto poteva accadermi non m’avrebbe mai impedito di raggiungerla. Il fuochista prese la lettera promettendo che cercherebbe di convincere gli amici: insomma mi lasciava altre speranze. All’una il piroscafo si staccò silenziosamente dalla banchina, mi passò davanti e ancora una volta lessi il nome a lettere bianche e dipinto di fresco. Era immenso, ora, il piroscafo; e così silenzioso che sembrava vuoto, i soldati sul ponte agitavano le braccia verso la rada folla della banchina, senza gridare. Erano addii in sordina, velati dal buio, dal caldo e dall’invidia di chi restava. Attraverso gli oblò vedevo gente affaccendata, allegra, che si preparava alla prima notte di Mar Rosso. Un giovane sporse la testa e disse piano: “Ciao, Africa”.
Appena al largo il piroscafo salutò con tre lunghi fischi di sirena. I due operai s’erano addormentati e si svegliarono con bestemmie nostalgiche, voltandosi ogni tanto a guardare la macchia cupa del piroscafo che dileguava.
E ora mi restava da leggere il libretto. Lo aprii con ripugnanza e la prima illustrazione era la mia mano. “Lo sapevo” dissi. Deciso a non farmi prendere dallo sconforto, rimisi il libretto in tasca. E ritornai dalla donna.
La trovai sdraiata su quel letto pencolante, dove sandali e scarpe avevano lasciato tracce di un grigio uniforme. Leggeva un giornale di novelle, che gettò a terra quando mi vide entrare, ma non parve sorpresa, e forse già sapeva da tempo che sarei tornato. Le raccontai la mia disavventura e le parole mi uscivano sempre più mozze e impetuose. Infine gettai lo zaino in un angolo della stanza e le chiesi se potevo restare. Attesi la sua risposta e intanto osservavo la stanza, che mi parve infinitamente sordida: gli uomini vi avevano lasciato tracce dappertutto. Fotografie erano infilate nello specchio e, sull’attaccapanni, vedevo una giubba di tela marrone, forse dimenticata da qualche ubriaco. E annusavo. Ma c’era soltanto un buon odore di acqua di colonia.
Avrei potuto dormire all’aperto, sul molo, e invece ero venuto in quella casa. Perché? A chiederle protezione o a sfidare la sua protezione? Non lo sapevo ancora. “Bene,” dissi “posso restare?”
Stette a lungo incerta, forse aspettava clienti; oppure la mia mossa la stava sconcertando. Infine disse che potevo, mi sarei messo di là, nella stanzetta della doccia. C’era una branda sconquassata. “Starò benissimo” dissi.
Acconciai la coperta sulla branda e mi distesi. “Qualcosa deve succedere” dissi. Ma ben presto la stanchezza e il caldo mi impedirono di pensare, anzi lo sconforto per il mancato imbarco mi stava dando un dolore al petto, il dolore di un affanno troppo trattenuto. Ma non potevo cedere, sapevo che sarebbe stata la fine, mi sarei ammorbidito di pietà per me stesso e la mattina dopo sarei corso all’ospedale, implorando. Mi dissi che se avessi pianto avrei rinunciato; e invece dovevo considerare molto freddamente la mia situazione e usare ogni mezzo pur di tornare in Italia. Stavo così rianimandomi, quando la porta di strada si aprì e sentii una voce chiamare la donna. “Mimì” ripeteva la voce e poco dopo la donna scese sospirando dal suo letto, fece entrare il visitatore e gli parlò. Forse stava dicendogli che c’era qualcuno di là. “Così presto?” pensai. E riuscii a sorridere.
L’uomo rispose che non gliene importava, ma, da come si muoveva per la stanza, indugiando, capivo che non sapeva decidersi a restare; e intanto la donna s’era rimessa sul letto, aveva acceso la lampada e aveva ricominciato a sfogliare il suo giornaletto di novelle.
“Non stare in piedi” disse. L’uomo sedette sul letto poi borbottò che se le cose stavano a quel modo, se ne andava. La donna gli rispose un annoiato: “Buona notte” e seguitò a sfogliare il suo giornale e così trascorremmo qualche minuto in un silenzio pieno di sospetti reciproci, finché non sentii il rumore di un ceffone dato su una mano. “Deciditi” disse piano la donna e l’altro rispose che se ne andava. Doveva sentirsi ferito nel suo orgoglio, oppure fingeva; anzi quei due si stavano strizzando l’occhio e trattenevano a stento le risa. Quando feci finta di russare, il visitatore, più che mai deluso e indispettito, si levò in piedi e ripeté che se ne andava davvero. Fu allora che la donna gli chiese quando sarebbe tornato a Genova.
Ancora sorrisi. Come tutto si svolgeva secondo le mie previsioni! Su, avanti, dite le vostre battute cercando di non ridere. “Tra dieci o dodici giorni, appena finito il carico” disse l’uomo. Era una voce calma e cantilenante nel suo accento genovese. Mi drizzai poggiando i gomiti sulla branda e stetti in ascolto, la donna stava parlando a bassa voce e, dopo un lungo silenzio, l’uomo disse che bisognava pensarci due volte. “Ma certo” pensai. La donna intanto lo aveva fatto sedere vicino a lei e stava chiedendo: “Quanto vuoi?”.
“Chiederà esattamente quel che ho in tasca, un po’ di meno, per non tradirsi” pensai. Trattenni il respiro. Il marinaio chiese chi era l’uomo che doveva imbarcarsi; ma poiché la donna taceva, stimando inutile una risposta (come recitavano male!), disse: “Sessantamila”.
Mi sdraiai sulla branda, quella risposta m’aveva improvvisamente confortato, e risi delle futili fantasie che m’ostinavo ad alimentare. Non possedevo più di ventimila lire e se l’uomo ne chiedeva sessanta era davvero un marinaio. Non aveva rifiutato, e questo era un buon segno, si dimostrava persona già avvezza a simili avventure. Ma che non avesse chiesto diciannovemila lire questo era un segno eccellente. Sarebbe, sì, stato assurdo convincere quel marinaio ad accettare un anticipo in attesa del resto allo sbarco, ma la sua secca risposta era una garanzia di serietà. Aveva detto la cifra con la voce di un giocatore di poker che rilancia.
Quando la donna venne verso il mio letto e mi fece segno di andare, sussurrando: “È il capitano di una carretta” le carezzai i fianchi, riconoscente. Rapido infilai i pantaloni e la camicia, ma prima da questa tolsi i gradi.
La donna ci presentò con un gesto, e il mio avversario si toccò il berretto. Decisi che potevo fidarmi, era proprio il tipo che vive di rischi: una larga faccia segnata da rughe profonde, una bocca enorme, avida, due occhi che saettavano improvvisi ma preferivano evitare il mio sguardo. Mentre parlavo, restò duro e imbronciato. Aveva in testa un berretto bianco con la visiera e l’ancora, uno di quei berretti che a Napoli portano anche i venditori di ostriche, e che lo faceva sembrare un ragazzo. Quel berretto mi ispirava una tenera fiducia. Il capitano stava appoggiato alla spalliera del letto, con una mano toccava le ginocchia della donna, ma leggermente, come il giocatore tocca il tappeto, aspettando che l’avversario si decida. Non supponeva quali nuove speranze, quale nuova fiducia mi stava dando il suo berretto. Quando ebbi finito di parlare, disse che non sapeva cosa farsene del denaro allo sbarco. E concluse: “Se lo prendo qui, compro roba”.
Risposi che accettavo. Gli avrei dato il denaro al momento dell’imbarco. Fissammo il giorno, l’ora, il luogo: in quell’attimo sentivo che l’ostacolo del denaro non doveva impensierirmi, sarei partito. Avevo dieci giorni di tempo.
Ritornai nella branda, felice. La donna non aveva più parlato, ora accompagnava l’uomo alla porta. Sentii i passi del marinaio in strada, quindi lo sentii bussare a una casa vicina e mi rassicurai maggiormente. Nessun tranello, tutto era chiaro. Quando la donna rientrò nella stanzetta, si sedette ai piedi della branda, appoggiando le spalle alla finestra e, per un momento, tacemmo. Mi sollevava il pensiero di essermi affidato a lei. Avevo colto nel segno a tornare in quella casa.
La donna stava silenziosa. Quando non si muoveva nella stanza e non parlava, il suo volto era ancora quello ingenuo e chiuso di una donna dell’interno. I cosmetici mettevano solo un velo puerile sul suo viso; mi ricordava certe bambine che si truccano per la prima volta, ansiose di affermare la loro pubertà e di sfidare i primi commenti. Ma il suo corpo era già sfiancato, in perfetta armonia col suo letto ampio, che occupava tutta la stanza e che non era possibile ignorare. Bisognava sedervisi o stare in piedi, a contatto di quelle pareti che conservavano anch’esse le tracce di immondi passaggi.
Era un’indigena evoluta, leggeva novelle, lettura che doveva essere per lei fonte d’orgoglio e pertanto teneva il giornale sul comodino e lo sfogliava, fors’anche immaginando situazioni romantiche. Questa era una buona situazione, stava proteggendo un uomo. E non sospettava nemmeno quale assurdo motivo mi avesse spinto in quella casa. Quale assurdo ma implacabile motivo mi avesse spinto da lei, che parlava come le sue bionde eroine e aveva acquistato il concetto del tempo e delle cose romantiche. Questo motivo non lo conoscevo nemmeno io del tutto, anzi più che un motivo era stato un impulso, e ora mi chiedevo se il caldo non mi avesse giuocato un pessimo tiro. Stava silenziosa, onorata di potermi offrire la sua ospitalità. “Sì,” pensai “quel sorriso al soffitto le è stato suggerito soltanto dalla noia del fuochista, non dal seguito della mia avventura, che non conosce.”
Era una brava donna, un po’ sfiancata dal caldo. Nient’altro. Ora certo stava immaginando cosa mai avevo potuto fare per mettermi in quella strada senza uscita. Non sapeva nulla. Quando mi chiese se possedevo già il denaro, le risposi di sì, e la ringraziai. Non avevo già troppo sfidato la logica fidandomi di lei per controllare l’esattezza delle mie fantasie? Ecco, si stava profilando un nuovo pericolo e bisognava scongiurarlo. Il giorno dopo avrebbe rinnovato la proposta ad altri marinai, ad altri capitani, per quello spirito di economia innato in queste donne, finché sarebbe venuto un carabiniere vestito da marinaio a offrirle il miglior imbarco possibile. E la donna avrebbe abboccato.
Nella stanzetta c’era un fresco odore di acqua di colonia, era certo l’odore della donna. Doveva lavarsi non per passare il tempo, ma per combattere il caldo.
Ecco, con estrema leggerezza, la mia solita estrema leggerezza, m’ero tradito, stimando di sconvolgere chissà quali congiure e di sventare chissà quali piani, e così guadagnare tempo. Mi ero preparata una nuova, invisibile trappola la con le mie stesse mani. Forse avrei fatto bene a parlare subito alla donna. Ma se le avessi parlato, ora che mi aveva espressa la sua simpatia, non avrebbe sentito un pentimento nelle mie preoccupazioni, o il rimprovero per quella solidarietà non sollecitata? Le dissi infine che rinunciavo a partire, potevo andarmene gratis, se avessi atteso qualche settimana. Poiché non rispondeva, aggiunsi che non ero un ladro, né un assassino. Nemmeno un disertore. “Sono un ingegnere,” aggiunsi “e sono stanco. Ho rotto il contratto e me ne vado. Perciò, non vogliono pagarmi il viaggio.”
“Perché sei stanco?” chiese. Era la domanda che meno mi aspettavo. “Tu non sei stanca? Ti piace star qui?” La donna alzò le spalle, certo che doveva piacerle. Aveva raggiunto quell’invidiabile posizione di una casetta con la doccia, aveva clienti, sapeva leggere, leggeva novelle in cui le ragazze bionde sposano proprio un ingegnere. E non aveva mai conosciuto ingegneri, se non in mutande.
Alzò le spalle. Aveva il caldo e la noia di Massaua nelle ossa. “Che ingegnere sei?” chiese. Dunque riusciva a distinguere persino tra due ingegneri. “Minerario” risposi, e non potei impedirmi di sorridere. Ma certo, sciocche fantasie. Sarei partito, quella donna aveva sorriso al soffitto solo perché il fuochista s’era svegliato alla vista del denaro. Non avevo sorriso anch’io?
La donna si levò, invitandomi ad andare nel suo letto, dove saremmo stati meglio. Stavo per alzarmi, quando ricordai, e dissi che faceva troppo caldo ed ero stanco. Allora entrò nella sua stanza: il mio rifiuto l’aveva forse offesa, non valeva proprio la pena di occuparsi di un ingegnere, anche se in realtà è un ufficiale che deve nascondersi. Poco dopo, tornava portando una bottiglia di aranciata e stette seduta sul bordo della branda, mentre bevevo. Povera Mariam. Aveva imparato a leggere, andava al cinema, non si lavava Più nelle pozze dei torrenti secchi, non rifiutava monete d’argento, il villaggio era ormai dimenticato. Poteva restar nuda non per estrema innocenza, ma perché aveva superato tutti i pudori. E se si copriva il ventre con la vestaglia, improvvisamente, non era certo per timore della mia rivoltella, ma per tardiva civetteria. Quella sua vestaglia veniva da Napoli, il suo giornale si stampava a Milano. Ma io, da lei non volevo essere toccato.
Il suo sguardo fisso e sereno non m’infastidiva, non riuscivo però a rammentare quale altra persona m’avesse guardato così. Non certo Mariam. Chi allora? Stava ferma e composta, il suo volto non voleva esprimere nulla, ma gli occhi, che vedevo soltanto adesso distintamente, non erano più i suoi. E il fiato impercettibile (forse avevo portato la mano vicino alla bocca, nel bere, e la tintura di iodio si stava mischiando al sudore, o forse qualcuno aveva gettato fiori nel cortile), quel fetore dolciastro stava già saturando la stanzetta. Mi meravigliavo che lei non lo sentisse, però non distoglieva gli occhi da me, ferma e silenziosa. “Johannes” pensai e da quel momento seppi perché ero andato in quella casa. La congiura continuava e non l’avrei sventata. Gettai con forza la bottiglia fuori della finestra e lei si scansò. Aveva creduto che volessi colpirla. “Scusa” dissi. Poi aggiunsi: “Qualcuno ha gettato dei fiori nel cortile?”.
Si sporse dalla finestra e disse: “No”. Ora il quasi impercettibile fiato stagnava attorno alla branda: i cani randagi erano ben lavati, e i fiori non erano ancora marciti, ma c’era il sospetto che marcissero improvvisamente. “Forse impazzirò” dissi piano. Ma la donna non udì, era tornata nella sua stanza e stava aprendo un cassetto. Tornò subito con una scatola da biscotti. Dentro c’erano le sue cose di pregio, il libretto della visita medica, alcuni gioielli d’argento, collanine, braccialetti, fotografie. Mi fece vedere il libretto postale, c’erano depositate ottomila lire. “Non bastano” dissi (inutile fingere, ormai), “e anche se bastassero, non saprei che farmene. Domani torno al cantiere. “
“Perché questa commedia?” dicevano i suoi occhi. Ma io dovevo insistere, farle comprendere che non c’era altro o che a me conveniva non ci fosse altro. Aggiunsi che sarei tornato dopo qualche giorno. Stava silenziosa. Poi si tolse la vestaglia, andò dietro il paravento e aprì il rubinetto della doccia. Benché non la vedessi, la sentivo stanca e immobile sotto il getto dell’acqua. “Manca un corvo” pensai “e ci saremmo tutti”, ma non riuscivo a sorridere. Quando uscì dal paravento restò vicino alla finestra ad asciugarsi all’aria calda della notte e con un grosso piumino si incipriava. “Non vuoi lavarti?” chiese. Risposi di no e stringevo le mascelle per non urlare che andasse via, nel suo grigio letto, e mi si togliesse dinanzi. Tremavo al pensiero che potesse sedermisi accanto e sentire quel fiato che imputridiva sempre più, inevitabilmente. La ringraziavo di tutto anche di ciò che non poteva immaginare, ma il giorno dopo sarei partito per l’altopiano. “Torno al cantiere,” conclusi seccamente “non parto più, riprendo il lavoro.” Volevo aggiungere: “Siete contenti, ora?”.
La donna venne daccapo a sedersi sull’orlo della branda e mi toccò la fronte. “Non sto male” dissi, e la scostai. Perché si portava la mano al naso? Mi levai di scatto e raggiunsi la finestra, ma nel cortile non c’erano fiori e nemmeno immondizie. Nessuna meraviglia, eravamo vicino al porto, l’acqua stagnante emanava certamente quel fetore che adesso riempiva la stanza e si posava come un velo su tutte le cose. “L’acqua stagnante, di certo” pensai. “Basta il cadavere di un topo, con questo caldo.” Ero alla finestra quando la donna mi venne vicino e fece il gesto di tendere le mani verso il mio collo. “Andiamo” disse. La fermai: “Non toccarmi”.
Si scostò come se l’avessi schiaffeggiata, divenne livida, pensava che non valeva l’avermi ospitato e offerto i suoi risparmi, davvero sudati. Non potevo perdonarle di essere una donna diversa da quelle che popolavano le sue letture? “Perché?” chiese. Quando capì che non volevo discutere, scoppiò a ridere e ancora tese le braccia verso il mio collo. La fermai. Pensavo che stavolta toccava a me la parte di Mariam. Se avessi ceduto? Non era già tutto previsto nei minimi particolari? Se l’avessi infettata, perché era inutile rinunciare a ciò che mi veniva offerto, prima che fosse troppo tardi? O forse la congiura aspettava da me almeno una buona azione? Bene, l’allontanai e la donna ritornò nella sua stanza, su quel letto striato di macchie grigie e pencolante come una zattera. Borbottò con voce aspra alcune parole. Sfogliava rapidamente il suo giornale di novelle, senza leggerle, sempre borbottando.
Poi spense la lampada.
Non sentivo il suo respiro, non dormiva. I suoi occhi, aperti nel buio mi inquietavano. “Come ti chiami?” le chiesi. Rispose che si chiamava Mimì.
“Va bene, ma ti chiami Mariam, no?”
“Sì, Mariam.” “Bene,” dissi “che c’è di strano? Tutte si chiamano Mariam quaggiù.”“Buona notte, Mariam” e dovetti trattenere il riso. Non disse nulla, si muoveva e forse sorrideva al soffitto, come aveva sorriso allorché tentavo di convincere il fuochista.
Stetti per molto tempo a guardare nel rettangolo della finestra il cielo scialbo della notte; poche stelle riuscivano a vincere il tedio di quel velo opprimente. Quando sentii la sirena di un’altra nave che salutava la città, non sperai di addormentarmi e ancora fui vinto dallo sconforto. Non sarei mai tornato in Italia, dicevo. Inutile tentare, sarei passato da una speranza all’altra perché mi falliva il coraggio di affrontare l’unica soluzione decente. Dovevo morire, i fiori stavano marcendo nell’attesa e io indugiavo.
Dopo una lunga ora decisi di uscire, sarei andato verso le prime alture; là forse il vento marino temperava l’alito insopportabile delle case. Le strade erano calde, livide e sporche come stracci. Sulla banchina, il posto lasciato vuoto era stato preso da un altro piroscafo e i facchini indigeni scaricavano casse. Cantavano per darsi forza, e si muovevano in dieci dove sarebbero bastate due persone; ma lavoravano così, senza crederci, come ubriachi.
Presi la strada della stazione, poi tagliai verso le prime alture e quando vidi tutta la città mi fermai, perché doveva sorgere il sole e il caldo sarebbe stato insopportabile. Sedetti su un poggio, vicino a una baracca abbandonata, tra grossi cespugli mangiati dalla polvere. Aprii di nuovo il libretto, era proprio la mia mano e quelle macchie erano quasi le mie macchie. Cominciai a leggere:
... Nella storia di S. Elisabetta di Ungheria del Montalambert si trovano particolari circa la cerimonia della separatio leprosorum. Celebravasi alla sua presenza l’ufficio dei morti; quindi, benedetti gli utensili che dovevano servirgli nella sua solitudine e subito dopo che gli astanti avevano fatto l’elemosina al malato, il sacerdote, preceduto dalla Croce e accompagnato da tutti i fedeli, lo conduceva in un tugurio isolato che gli veniva assegnato per dimora. Sul tetto di quella capanna il Sacerdote poneva terra di un cimitero, esclamando:
Si mortuus mundo vivens iterum Deo.
Gli rivolgeva poi un discorso consolatore rappresentandogli le gioie del Paradiso. Poi piantava una croce di legno davanti alla porta della capanna, ed ognuno si allontanava...
“Basta” pensai, e rimisi il libro in tasca.
Il porto era pieno di navi alla fonda, navi di tutte le dimensioni, e tra quelle c’era anche la nave che mi avrebbe portato a Genova, se avessi trovato sessantamila lire da dare al capitano. La cosa era certa, non si trattava di un semplice fuochista, ma di un capitano che traffica e ha bisogno di denaro. Un malandato capitano. Qual era la sua nave? Forse quella rossa e grigia vicino al molo? Doveva essere proprio quella una nave scalcagnata, con un capitano che ha trovato lavoro soltanto perché c’è molta richiesta, e ha ripreso il mare, stavolta deciso ad arricchirsi.
Trassi la rivoltella dalla fondina e la esaminai, e intanto pensavo che quel capitano mi avrebbe ospitato alla sua mensa e a Genova sarei sceso comodamente, e ci saremmo salutati amici per sempre. Ma inutile ormai cercare trentaduemila lire, ammesso che Mariam voglia fare il suo bel gesto, sotto il quale chissà che nuova perfidia si nasconde.
Il mare era là in fondo, di un grigio appena più cupo del cielo, fumoso e caldo, un mare uso ai miracoli ma che non si sarebbe stavolta aperto per me, per un “intoccabile”. Tolsi la sicura e, in quel momento, il silenzio fu rotto da una tromba che suonava la “sveglia”. E dov’era la caserma? Proprio sotto la collina, dove il poggio si addolciva nella pianura.
Erano lunghe baracche dipinte di grigio e sinora non le avevo notate. Quel grande spiazzo era il campo sportivo, inconfondibile col muro tutt’intorno e la scarpata che chiudeva uno dei lati minori. Vidi che da tutte le baracche, al suono della tromba, cominciavano a uscire in fretta uomini a torso nudo che andavano a lavarsi, ma non mi giungevano grida. Dopo un po’, tutti scomparvero e a quella scena ne successe un’altra.
Venne dapprima un drappello armato, forse venti uomini, comandati da un ufficiale, poi gli uomini della “guardia”, con l’ufficiale di picchetto. Dovevano fare l’alzabandiera. Strano, l’ufficiale di picchetto aveva la fascia azzurra, non ne avevo più viste dopo la partenza dall’Italia. Poi, man mano, tutte le compagnie, otto, vennero dalle baracche e si disposero in quadrato al centro del campo. I soldati erano in pantaloni lunghi e giubba. Forse stavano festeggiando l’anniversario del reggimento o qualche altra ricorrenza militare, a meno che non fosse domenica. Non era domenica, non si trattava della messa. Si sentivano solo secchi comandi, poi il trombettiere suonò “l’attenti” e un soldato fece salire la bandiera sul pennone. La bandiera rimase inerte, avvoltolata al pennone, mentre la truppa presentava le armi.
Mi giungevano altri comandi. I reparti che si erano messi dalla parte della scarpata si mossero in modo da lasciarla vuota. Al “riposo”, la truppa rimase ferma e silenziosa, mentre gli ufficiali si adunavano fuori del quadrato e parlavano, ma sempre tenendo d’occhio i loro reparti, gridando ogni tanto un ordine, che veniva subito eseguito, con una rapidità che mi stupiva.
“È un reparto arrivato di fresco,” pensai “se ancora fila così.”
Passava il tempo e non succedeva niente. Ero tentato di andarmene, ma la stanchezza mi induceva a restare e respingevo l’idea di tornare nella casa della donna, piena del mio e del suo caldo fiato notturno.
Gli uomini stavano sempre immobili al loro posto, nessuno chiedeva di allontanarsi, come sempre succede quando un reparto sta sul “riposo” per molto tempo. Nessun soldato s’era seduto o s’era tolto il casco. Tutti tacevano, soltanto gli ufficiali, riuniti in crocchio, parlavano, ma piano, senza agitarsi. Passò molto tempo ancora. Tra le baracche faceva capolino qualche soldato in mutande, ma subito si ritraeva, stimando prudente non farsi vedere. Erano i cuochi, le ramazze, gli ammalati. Nessuno si muoveva. Tra poco sarebbe sorto il sole, una nave stava uscendo dal porto (non quella rossa e grigia) e la sirena fischiò a lungo, tre volte. I soldati non si mossero, qualcuno voltò appena la testa verso il porto. E ora, poiché un cane, sbucato da una baracca, avanzava caracollando di gioia verso la truppa allineata, un soldato gli corse incontro e prese a tirargli sassi, finché il cane non si decise a tornare indietro, fermandosi ogni tanto a guardare se veramente era lui l’oggetto di quella insolita accoglienza. Si ebbe un colpo sul groppone e allora fuggì e non si fece più vedere. “Il colonnello odia i cani” pensai.
Dopo un istante, un ufficiale entrò nel campo, correndo dalla baracca principale e subito sentii altri comandi, stavolta più decisi, i comandi definitivi delle grandi occasioni. Era forse un generale che voleva passare in rivista uno dei suoi reggimenti, ma era strano a quell’ora. Poi non lo trovai affatto strano, il caldo tra poco avrebbe reso faticosa ogni evoluzione.
Dalla baracca principale usciva adesso un piccolo corteo. C’erano vari ufficiali e il cappellano del reggimento, in cotta e stola. Forse doveva benedire la nuova bandiera del reggimento, che era in quella cassa vicino al pennone. Il piccolo corteo avanzò sino al pennone della bandiera e si dispose di fronte al drappello. Un ufficiale molto pingue si pose in mezzo al quadrato, con le spalle alla scarpata, trasse un foglio da un portacarte e cominciò a leggere. Non sentivo nulla. I soldati stavano immobili in un “attenti” perfetto. Tra le baracche, gli uomini in mutande s’erano aggruppati e non si muovevano.
L’ufficiale finì di leggere e tornò vicino al drappello. Fu ordinato il “riposo”, ma i soldati non fecero nessun movimento percettibile e il silenzio non fu interrotto da nessun brusìo. E fu allora che m’accorsi che tra il gruppetto degli ufficiali c’era anche un soldato.
Strano che non l’avessi visto prima. Stava a testa nuda, le mani dietro la schiena, accanto al prete e ad altri due soldati. Le viscere cominciarono a dolermi, perché avevo capito. Volli alzarmi, ma rimasi inchiodato, incapace di andarmene, solo sperando che avrei avuto la forza di non guardare, ma sapevo che non era possibile.
I tre soldati e il prete si mossero verso la scarpata. Il prete parlava all’orecchio del soldato, il quale camminava senza nulla vedere, poiché il prete doveva ogni tanto sorreggerlo e guidarlo.
Mentre i quattro camminavano verso la scarpata, il drappello si mosse silenziosamente e un ufficiale fece un gesto. Gli uomini approntarono le armi. Non udii nessun rumore, forse le armi erano già cariche. Tra le baracche, qualche soldato andò via.
Adesso gli ufficiali erano tutti al loro posto. Il prete parlava sempre e il soldato faceva segno di sì con la testa. Un sudore freddo mi stava bagnando il petto e la schiena, e scendeva lungo le gambe. Mi gettai a terra, presso un cespuglio, non volevo vedere, né sentire nulla. Cominciai a tremare e cercai di nascondermi nel cespuglio. Volevo nascondermi. Era quella la mia esecuzione, sarebbe stata quella, e io m’ero alzato in tempo, avevo preso quella strada, avevo scelto il posto migliore.
Il soldato faceva sempre cenno di sì con la testa e il cappellano l’abbracciava. In fine lo baciò, gli fece baciare la croce e si ritrasse guardandolo, mentre anche i due soldati si ritraevano. Il soldato a testa nuda guardava il cappellano, poi alzò appena la testa verso la collina. Ma non poteva vedermi, ero nascosto dal cespuglio e non poteva immaginare che a quell’ora ci fosse qualcuno lassù. Gli uomini puntavano le armi, il soldato guardava la collina, di colpo cadde in avanti, come spinto da un pugno e intesi la scarica.
Gettai un urlo, ma nessuno poté sentirlo. Stetti lì, nascosto, mentre alcuni ufficiali si avvicinavano al soldato e il prete agitava la croce.
Ora due soldati stavano portando la cassa dal pennone verso la scarpata, altri due vi deposero il corpo del soldato, chiusero la cassa e si scostarono, senza parlare. Dalle baracche avanzava, traballando sulle asperità del campo, un autocarro.
L’ultimo sguardo del soldato era stato per la collina, ma non è possibile che m’abbia visto: ero nascosto da un cespuglio. Nessuno mi aveva visto, nemmeno i soldati che adesso rientravano nelle baracche, sempre ordinati; nemmeno gli ufficiali che, senza guardarsi, entravano nella baracca principale a prendere un cognac o un caffè; nemmeno il cappellano, che aspettava vicino al furgone, per salirvi.
Mi sdraiai a guardare il cielo, cercando di calmarmi. Non era la mia esecuzione, non ero né un disertore né un traditore: ero soltanto un malato. Non si fucila un malato. Avevo una licenza in tasca. Quanto al dottore, avrei negato ferocemente. E dopo? Che importa “dopo”? “Sono malato,” ripetevo “non possono fucilarmi, non possono uccidermi, debbo vivere.” Poi dicevo: e allora perché la commedia del suicidio, perché pensi ancora al suicidio? Voglio cadere a pezzi, rispondevo, ma vivere sino all’ultimo momento. Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo, non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla.
Stetti là mezz’ora finché la terra divenne bollente. Vari suoni di tromba mi avevano annunciato che la vita della caserma riprendeva il suo corso normale. Ora il cane correva libero nello spiazzo e soltanto tra le baracche qualche soldato indugiava ancora a guardare la scarpata. Allora ridiscesi verso la pianura, ed ero felice, perché avevo deciso di vivere.
Quel giorno passò. Venuta la notte non tornai dalla donna. Inoltrandomi nella città avevo notato alcune baracche a disposizione dei reparti che dovevano imbarcarsi e, in quel momento, vuote. Mi allogai nella baracca delle docce e vi stetti per sfuggire al caldo infernale delle strade. Trascorsi molte ore sdraiato sul pavimento, cercando nelle abluzioni un sollievo al prurito che mi procuravano le macchie sul ventre e sulle braccia. Erano peggiorate.
Talvolta sorridevo al pensiero dei carabinieri che forse m’andavano cercando e non mi sapevano a due passi da loro. Ma erano brevi ottimismi, subito insorgeva l’ansia dì partire e dovevo placarmi con mille ragionamenti. Avevo tempo molti giorni per trovare il denaro e meditavo di tornare l’indomani da Mariam, avrei accettato anche i suoi risparmi, dovevo togliermi per sempre dalla mente le sciocche fantasie che m’angustiavano.
Così attesi l’alba e con l’alba il primo sonno dopo tante notti. Ne uscii rinfrancato e mi ripetevo che tra venti giorni sarei in Italia. Dieci giorni per trovare il denaro. Anche troppi. Qualcosa avrei fatto e, per quanto non sapessi precisare che cosa, pure sentivo che non mi sarebbe mancata l’occasione di procurarmi le trentaduemila lire che occorrevano.
Non mi aspettavo, recandomi da Mariam, di trovarvi chi ci avrei trovato. Ma non ero stato io a insegnargli quella strada? Ci trovai il maggiore di A., il corpulento e sicuro maggiore di A. Stava facendo la doccia.
“E lei cosa fa da queste parti?” chiese subito, ridendo. Non ero stato capace di ritirarmi e mi aveva visto. Ma perché rideva? Non sapeva dunque nulla della faccenda del dottore, oppure il dottore non aveva parlato. Cercai di ridere anch’io, dissi ch’ero in licenza, e gli mostrai il foglio. Scoppiò in una larga risata e aggiunse che questo si sapeva, erano mesi ormai che mi vedeva a spasso. Poi chiese se andavo in Italia e io dissi di sì. Uscì dal paravento, seminudo, aveva un asciugamano attorno al ventre e con un altro asciugamano si strofinava il petto e la schiena. Era di un color pallido, aveva petto femminile e gambe gracili e sempre più il suo volto esprimeva un mistero che non volevo risolvere. Il suo ventre, non più trattenuto, prorompeva solenne. Sedette sul letto di Mariam e riprese a strofinarsi. Era quasi soddisfatto che l’avessi sorpreso in quella casa, già di famiglia. Eravamo tutti di famiglia. Ma lui era soddisfatto.
Gli chiesi se mancava molto da A. e rispose che ci mancava da due, tre giorni. Allora non poteva saper nulla, e la breve speranza che mi aveva confortato dileguò. Mi restava un compito, fare in modo che mai sapesse nulla e non compromettesse il mio imbarco. Compito facile: non conosceva il mio nome, c’eravamo presentati in fretta e non poteva ricordarlo. Ora gli avrei detto un altro nome. Dovevo essergli simpatico. Ero, ai suoi occhi, uno di quegli ufficiali di cui si favoleggia in ogni reggimento, incapaci di far qualsiasi cosa, che si addormentano quando c’è la visita del generale o fanno saltare la polveriera per distrazione. Ed era troppo soddisfatto di sé per non trovarmi simpatico. “Conosce anche lei Mimì?” chiese.
“Non come lei” risposi ridendo. In quel momento entrava la donna, era stata in giro per acquisti. Vedendoci in conversazione, prese a rassettare la stanza. “Questo è il suo albergo diurno” dissi al maggiore indicando quella sordida stanza, dove le tracce degli uomini erano dappertutto e rendevano ambigua anche la nostra presenza. Rise apertamente, scuotendo la testa. Si trovava di passaggio: una capatina e una doccia. Si sentiva molto giovane, amato e soprattutto per la sua nuova, inaspettata giovinezza che io gli avevo rivelata. Disse che Mimì era una cara ragazza, non protestava mai, e le carezzò la schiena, indugiando. La donna non si volse nemmeno e, nel silenzio che seguì, sentii che mi era ostile. Dopo un po’ io e il maggiore uscimmo per andare a pranzo. La sua compagnia era per me un alibi insperato.
Era molto soddisfatto, il maggiore. Avevo sorpreso un lato nuovo, scapigliato della sua esistenza e di ciò doveva sentirsi felice. Deposta ormai la gravità del suo grado, che l’aveva spinto a consigliarmi di radermi, quella prima volta che c’eravamo incontrati, sembrava adesso chiedermi la naturale complicità dei miei anni. Poteva, sì, trattarmi come un ragazzo, con la degnazione protettrice che gli uomini molto pratici e fortunati pongono nel trattare i giovani che non lo sono, ma adesso s’era liberato d’ogni invidia. Ripensavo a quel suo cassetto, forse non più avaramente rassettato. Mi batteva la mano sulla spalla con un gesto cordiale, scusandomi se non ero come lui, se non avevo le sue fortune, di cui ora apprezzava il valore. Diceva: il mio camion. Possedeva dunque un camion, non un camion dell’esercito, ma un vero e proprio camion privato. E commerciava. Non era il solo. Perciò mi trattava come un ragazzo che deve molto imparare dalla vita, un ragazzo che insegue gli ottimismi e ama gli indigeni perché trova in loro certe virtù che gli altri popoli stanno fortunatamente perdendo. Avevo molto da imparare da lui, di questo eravamo convinti tutti e due.
Sì, dovevo essergli simpatico. “Lei” disse “è uno di quegli ufficiali che, quando montano di picchetto, la caserma si vuota, escono anche gli ammalati e la sera non torna nessuno.” E rise. Anch’io risi, modestamente. Mi accorgevo che a volte la sua sicura eleganza si scomponeva in modi più familiari, perdendo ogni volgarità. Ma in quegli istanti invecchiava e di qui il suo sorriso perenne, il furbo ammiccare degli occhi. Lottava contro la sua decadenza.
Guardava il porto diversamente da me. Io lo vedevo come la stazione della mia fuga, lui come una baracca più grande. Le casse venivano da quella banchina e salivano nel suo camion color turchino. Non occorreva molta fatica, soltanto la fatica che occorre per prendere una cassa e metterla su un camion. Non era nemmeno furto. Ed ero stato io a rivelargli l’esistenza di tutte le Rahabat che non hanno un preciso concetto del tempo. Sorridevo pensando alla moglie nel portaritratti. Al ritorno, il maggiore seguiterebbe a usare la sua seconda giovinezza, aiutandosi con i guadagni che accumulava nel frattempo. La moglie sarebbe rimasta nel portaritratti. Era il suo posto, ormai, e non sembrava scontenta di starci. Sorrideva.
E a me mancavano trentaduemila lire. Anzi, adesso, quarantamila.
Fu dopo pranzo che mi venne in mente di chiedergliele. Ci eravamo recati al bar e assorbivamo l’indolenza di quel pomeriggio afoso bevendo aranciate. Pensai che non poteva negarmele: anzi, non doveva. Soltanto più tardi capii la ragione di questa mia assurda pretesa: mi sentivo il suo naturale creditore. Cosa poteva costargli darmi quel denaro? Il conoscere la fonte dei suoi guadagni mi autorizzava a ritenermi suo complice. Gli avrei fatto credere, inoltre, a un debito d’onore. In Italia, avrei depositato la somma a suo nome nella banca che mi avesse indicato. Sarei stato eloquente, entusiasta, l’avrei ammirato al limite delle mie forze. Era veramente una speranza ingenua e alimentata dal caldo di una implacabile giornata e dal suo volto che improvvisamente cedeva alla stanchezza del giuoco che s’era imposto. “Maggiore,” dissi “debbo chiederle un prestito.”
“Volentieri, “ rispose “di quanto ha bisogno?” Stavo per dire la cifra, egli aveva già messo la mano in tasca e tratto alcuni biglietti da cento. Li spiegazzava, porgendomeli, quasi per sentirne l’amato fruscio sino all’ultimo. Capii che la mia richiesta l’avrebbe sorpreso, forse indignato o addirittura messo in sospetto. Allora risi, dissi che non avevo bisogno di nulla, ero stato mosso soltanto dalla curiosità di vedere se avevo in lui un amico.
Rassicurato da queste parole, il maggiore insisté che prendessi il denaro, voleva mettermelo in tasca e io dovetti ripetere che avevo scherzato. “Di che cosa vuole che abbia bisogno,” dissi “vado in licenza.” Per maggiormente rassicurarlo, gli mostrai il mio denaro. Soltanto allora il maggiore rimise in tasca il suo, tuttavia lieto di avermi provato la sua cordialità. Si fece magnanimo e, mentre io lo guardavo dissimulando l’angoscia (ora capivo che non avrei mai trovato il denaro), egli seguitò i suoi discorsi. Non lo ascoltavo. I battelli ancorati nel porto cuocevano al sole. Li guardavo con invidia profonda, invidiavo i marinai affranti nelle cuccette che sarebbero partiti, senza apprezzare la loro fortuna, anzi maledicendola. “Devi restare quaggiù a marcire” pensavo. E sino a quando avrei evitato la cattura? Ora il maggiore era il mio naturale nemico. La sua sicurezza mi offendeva.
Lo rividi passeggiare su e giù davanti alla casa delle due ragazze, col suo vecchio sussiego che mascherava così male la libidine accumulata nel mediocre ordine della sua vita domestica. Rividi il suo cassetto, e il gesto di frugare con le mani sotto la tunica della ragazza ancora addormentata.
Parlava. Era veramente sincero quando, battendomi una mano sulla spalla, per salutarmi, disse: “Per qualunque cosa, si rivolga a me”. Mentre ripeteva questa profferta, spalancava gli occhi generosamente e tutto il suo viso rossiccio, fitto di brevi rughe e con i pomelli venati, si illuminava. Pensai che eravamo due animali di specie molto diversa e, quasi senza volerlo (quale voce mi suggerì le parole?) dissi: “Ho bisogno che lei mi porti sull’altopiano, qui si muore dal caldo e mi annoio. Il piroscafo parte tra una settimana”.
Esclamò ch’era un’ottima idea, felice di poter contare sulla mia compagnia. Mi avvisò che sarebbe partito l’indomani per D.
D. è una località oltre il fiume. Benché provassi un’istintiva ripugnanza all’idea di riattraversare quei luoghi, dissi che mi sarebbe piaciuto rivederli per l’ultima volta. Il maggiore sorrise: ero incorreggibile. Mi annunziò quindi l’ora della partenza e il giorno del ritorno a Massaua; anch’egli voleva tornare prima della partenza del piroscafo. “Ci daremo il cambio al volante” aggiunse.
“Sì” risposi. Mentre parlava io lo guardavo veramente imbambolato, sorpreso per la nettezza dell’immagine che si era formata nel mio cervello e che ora si proiettava lontano, dietro le spalle del maggiore, con rapida precisione. Vedevo qualcosa cadere in una forra, e l’immagine si proiettava daccapo, quasi fossi incapace di controllarla. Stavo così imbambolato, quando il maggiore, messo in dubbio dal mio silenzio, chiese: “Forse D. è troppo lontano?”.
“No,” risposi “è abbastanza alto.” Non poteva capire.
Raggiunta D., il giorno dopo saremmo partiti per tornare a Massaua. Lungo il percorso il maggiore aveva concluso i suoi affari, ritirato il denaro, che ora custodiva in una borsa di cuoio. La teneva costantemente presso di sé.
Dovevamo partire all’alba e non avevo un minuto da perdere. Prima di cena, il maggiore s’era appisolato, m’accostai all’autocarro. Sapevo già cosa dovevo fare, svitai un dado della barra di trasmissione del volante. Ce n’erano due, uno per ruota, svitai quello della ruota sinistra, lasciandolo all’ultimo giro perché mi sarebbe stato più facile, scendendo, completare l’opera. Lo svitai soltanto. L’avrei tolto al momento opportuno. Tornai quindi nella tenda e, fingendo di frugare tra la mia roba, presi il cinturone del maggiore, che non vi badò, credendolo il mio. Ne tolsi la rivoltella, che scaricai e rimisi a posto. Ora dovevo star calmo e attendere l’alba. All’alba saremmo partiti verso il fiume, com’ero partito quattro mesi prima per togliermi il dente.
Durante il viaggio il maggiore era stato gaio, la nostra amicizia s’era rafforzata. Il maggiore non aveva neanche celato di quale natura fossero i sentimenti che nutriva verso la moglie: la detestava, era ben lieto di esserne lontano. La nuova fortuna accumulata gli faceva certo sembrare la donna del portaritratti un ostacolo al suo avvenire. Lo seguii sulla china dei giudizi sulle donne, intanto pensavo a Lei, a ciò che stavo facendo per poterla rivedere. La amavo al punto da provare, come un adolescente, improvvise fitte al cuore ogni volta che dubitavo della mia impresa e quindi del mio ritorno. Nelle lunghe ore di camion, quando il maggiore taceva, io rivivevo i momenti della nostra vita felice sino all’ora della mia partenza, quando l’avevo vista fuggire dal molo, incapace di resistere alla commedia degli addii, fuggire singhiozzando e voltandosi a salutarmi, ma senza vedermi, con quei sorrisi che annegavano nelle lagrime.
Più che mai adesso la rivedevo in quel gesto, la perdevo di vista tra la folla, riappariva vicino alla fanfara, premendosi una mano sul petto per soffocare l’affanno, credendo che non la vedessi. Eppoi, ancora mi salutò in fretta e infine scomparve, urtata dai facchini e dai doganieri, e si fermò soltanto verso il cancello, incapace di proseguire, incapace di trovare l’uscita e di guardare il piroscafo. Stette lì ferma, finché la nave non si staccò tra il chiasso degli addii. E il mio grido non la raggiunse, coperto dal fragore degli ottoni.
Dovevo rivederla, ciò che stavo facendo mi appariva un’operazione ovvia, della quale il maggiore non avrebbe potuto adontarsi, conoscendola. Il maggiore e il dottore, due pietre da togliere dal sentiero e da scagliare sulla tomba di Mariam, su quell’inappagata tomba.
Mi stavo affezionando al maggiore che, a parte la sua tardiva vanità, era un brav’uomo e aveva preso a benvolermi, stimandomi inadatto alla vita. Lo consideravo già escluso e talvolta mi fissavo a guardare la mia vittima, che si ostinava a ridere, a parlare, a preoccuparsi delle sciocchezze quotidiane. Soltanto una volta m’ero chiesto se era giusto quel che stavo facendo. “Quando si comincia,” risposi “si continua, e forse non si tratta di nuovi capitoli, ma di perfezionare il primo.” Non c’era troppo da scegliere, certo quel colpo che aveva abbreviato le sofferenze di Mariam aveva ucciso anche il maggiore. La fatalità voleva che a tutte le mie vittime dovessi riuscire simpatico, mi trovavano un caro, cordiale ragazzo: anzi, era questa la condizione essenziale. Rammentavo il dottore (adesso ero quasi contento di averlo mancato); quel pigro dottore che il gusto degli aforismi, del caffè, delle pantofole e la cui amicizia avevo sentito improvvisa come si sente a volte la primavera in una cupa giornata invernale, passando tra gli alberi di un giardino. Non aveva accettato, il misantropo, di parlare con me per un’ora, prima di accorgersi che ero soltanto un malato?
Adesso, il maggiore, che mi stima un giovane ancora salvabile, degno di fiducia e che sente in ogni mia parola l’ammirazione per le sue fortune.
Né avrei potuto ritirarmi, tutto si stava svolgendo all’infuori di me, con un’approvazione che non avevo nemmeno sollecitata. Anzi, erano delitti già commessi da tempo, che io ricalcavo. Un lavoro di restauro. Ora pensavo che sin dal nostro primo incontro, sulla piazza di A., io avevo capito. Sin d’allora qualcosa (forse il suo modo di camminare, il gesto di accomodarsi il cinturone, la sua aria imbronciata che mascherava un’estrema e tardiva libidine), qualcosa mi aveva fatto presagire che nella storia del maggiore avrei avuto una parte.
Venendo dal fiume avevo notato che altri reparti s’erano accampati sul ciglio meridionale, in prossimità della prima discesa. Dissi perciò al maggiore che mi sarei fermato a salutare un mio cugino, anch’egli ufficiale, che non vedevo da tempo.
Sarei partito il giorno dopo con un camion qualsiasi. Mancavano quattro giorni alla partenza del piroscafo (e sei a quella della “carretta”).
“Se vuole,” disse “per un’ora posso aspettarla.” Risposi che preferivo fermarmi di più. Non fece altre obiezioni, solo mi parve meno cordiale del solito. Dall’arrivo a D. era cambiato, forse colpa degli affari.
Di tutto m’ero preoccupato fuorché del denaro. Dovevo rubarlo, la parola ormai non mi spaventava, ma il difficile era avvicinarsi a quella borsa senza destare sospetti. La teneva sempre con sé e non avrei certo potuto raggiungere l’autocarro nel burrone, per frugare tra i rottami, o addirittura tra i tizzoni dell’incendio. Dovevo prendere il denaro prima della partenza, ma come? Mi dicevo che qualcosa l’avrei escogitato sul momento, poi mi rimproveravo questa leggerezza, torturandomi a immaginare quale manovra sarebbe meglio riuscita.
Stetti così sveglio tutta la notte, la borsa era sul tavolo ma non avrei potuto prenderla senza toccare la branda del maggiore.
All’alba, pronti per la partenza, non avevo ancora deciso nulla e già stavo per abbandonare l’idea, riavvitare il dado, tornare a Massaua, aspettare un imbarco meno costoso, chiedere ospitalità a Mariam. Sennonché l’occasione venne quando meno l’aspettavo. Il maggiore, dopo aver messo la borsa accanto a sé, sul sedile del camion, scese un istante per controllare se le gomme erano a posto e in quell’istante (credetti che il cuore mi si fermasse), aprii la borsa, presi un pacco di biglietti (erano biglietti da cinquecento lire), nascosi il pacco nello zaino e accesi una sigaretta: giusto in tempo perché il maggiore soddisfatto della sua ispezione, risalisse mettendosi al volante.
Ora il piano doveva riuscire: il dado avrebbe retto finché non l’avessi tolto, poi sarebbe rimasta la vite, trattenuta appena dal grasso, e lo sterzo l’avrebbe fatta saltare, nei bruschi movimenti che richiedevano le curve della discesa. E, allora, il maggiore, in quella strada troppo stretta, fatta per andare avanti e poi acconciata alla meglio, senza un solo paracarro, non avrebbe evitato la sua catastrofe. Sarebbe caduto col suo camion color turchino, tra quegli alberi di cartapesta. Passando, nessun autista si sarebbe chiesto se valeva la pena di andare a vedere, l’automezzo era vuoto, non c’era nemmeno da ricuperare il carico. Sarebbe caduto come un giocattolo che supera nella sua corsa l’orlo del tavolo. Anche se qualcuno fosse andato giù (ma questo era un contare troppo sulla curiosità di chi traversava quella valle), avrebbe trovato una borsa piena di denaro e una vite di meno. E un maggiore senza ferite d’arma da fuoco. La cosa sarebbe finita in archivio, con un telegramma alla moglie.
M’ero attardato nel vestirmi per dar tempo agli altri autocarri di precederci. Nessun pericolo che qualche vettura potesse seguirci (la strada terminava appunto a D.), e nemmeno che qualche vettura potesse venirci incontro: il traffico era regolato in modo che le macchine non si incontrassero, appunto per la carreggiata che non permetteva il doppio passaggio. Partimmo, ed ebbi la forza di parlare sino al momento di scendere: fu questa la più grave fatica, poiché il maggiore mi appariva non del solito umore e i miei scherzi lo facevano appena sorridere. Quando gli dissi di fermare, frenò di colpo e parve soddisfatto di come funzionavano i freni. Che sospettasse qualcosa? Subito scesi e lasciai cadere a terra, vicino alla ruota, la scatola dei fiammiferi. Mentre con un sospiro di noia, la raccoglievo, tolsií il dado e lo misi in tasca. “Arrivederla, maggiore” dissi.
Rispose appena. Sì, sospettava qualcosa. Quando ebbi preso lo zaino, chiuse lo sportello: era il segnale che il mio piano stava riuscendo. Quel rumore secco mi dette coraggio, ma per poco; era come il rumore di una bara che si chiude, e fui quasi sul punto di saltare sul predellino e confessare tutto. Rividi il piangente volto di Lei e mi trattenni. Era già stato fatto. “Arrivederla, maggiore” dissi. Poi aggiunsi: “E grazie di tutto”, ma senz’ombra di ironia, volevo proprio ringraziarlo; e quel suo volto rossiccio, ora serio, mi parve improvvisamente invecchiato, spento. Ma era così calmo che scacciai subitamente la rapida visione che quel volto mi suggeriva.
Feci per incamminarmi, le mie gambe si muovevano con un’insolenza non nuova, la stessa euforica insolenza di quando m’ero trovato salvo sul ciglio della strada a guardare vittoriosamente il paesaggio della valle e il camion rovesciato nella sua nuvola di polvere rosa. Non avevo fatto pochi passi che il maggiore mi richiamò. Era pallido. “Venga qui” disse. Fui tentato di fuggire. Mi avrebbe rincorso, pensai, e tutto invece doveva svolgersi con la calma. Era sceso anche lui, aveva la borsa tra le mani e m’aspettava frenando la collera; il suo volto sera sbiancato. “Manca del denaro qui” disse. “Lei ne sa qualcosa?”
Alzai le spalle meravigliato, ma non fui capace di dir nulla, il suo pallore mi stava togliendo ogni coraggio, e daccapo percepivo la visione di prima, fastidiosa e lontana. Ecco, non avevo previsto questa scena. Perché il condannato non si rassegnava?
“Fuori il denaro” disse seccamente. Allora capii che se avessi ceduto sarebbe stata la fine e divenni sprezzante, dissi che non sapevo nulla del suo denaro. Poi, siccome faceva il gesto di togliermi lo zaino, aggiunsi rapido: “Ma sì l’ho preso io e lo tengo”.
Era un colpo giusto, perché rimase stupito, incapace di rispondere, la collera e la sorpresa lo stavano soffocando. Allora insistei. Quel denaro mi serviva, glielo avrei restituito in Italia. Ora, mi serviva.
Se mi avesse denunciato, anch’io l’avrei denunciato. “E si risparmi di prendere la rivoltella,” aggiunsi “perché è scarica.”
Forse soltanto la morte, tra poco, avrebbe confermato alle sue guance un simile pallore. “Lei è un farabutto” mormorò, e vidi che desisteva dall’aprire la fondina. Risposi che non m’importava, mi lasciasse il denaro, altrimenti avrei parlato. Forse avrebbero colto l’occasione per dare l’esempio. Sentivo nelle mie parole una persuasione che lo faceva pensare. Invece, sedette sul predellino e sorrise. Per la prima volta sorrideva. Mi guardava e sorrideva, come pregustando la sua vittoria. “Bene,” disse infine “faccia pure. Ma lei non parte con nessun piroscafo.”
“Ce ne sono molti di piroscafi” risposi, perché la sua ironia mi eccitava.
“Per lei nessuno” ripeté, sempre sorridendo e calcando le parole. “Nemmeno la più piccola e sgangherata carretta.” E mi fissò calmo, aspettando che aprissi lo zaino e gli consegnassi il denaro.
Queste parole mi dicevano che sapeva, e soltanto per incredulità non vi aveva accennato prima. Ma adesso aveva le prove. Mariam, dunque. Ora afferravo il senso delle sue parole borbottate. I conti tornavano e tutte le Mariam erano d’accordo. Ma avevo il dado in tasca.
Il maggiore aspettava. “Bene,” dissi “vuol denunciarmi?” Fece cenno di sì con la testa, gravemente, sempre fissandomi. Poi aggiunse: “Credevo fossero semplici malignità. Sono stato un ingenuo, ma non importa. Conosco il suo nome, meglio di quanto non creda”.
E poiché restavo incerto, il suo volto si illuminò di furberia, la furberia che già tanto detestavo e che egli, come un cattivo attore, era incapace di dissimulare, e disse: “Perché lascia tante lettere in giro?”.
“Faccia pure, anch’io la denuncerò” ma lo dissi a bassa voce, fingendo di essere preoccupato, per non fargli capire che il mio giuoco era troppo perfetto. “Ma lei non mi denuncerà” aggiunsi. “Prenderà altre casse e con un solo viaggio riparerà al danno” e lo dissi quasi supplicando.
“No,” disse testardo “la denuncerò.” Ma io toccai il dado attraverso la stoffa. “Ci pensi prima di farlo” dissi. Dovetti trattenermi, altrimenti avrei riso. Scuoteva la testa, sollevava le spalle. “Perché dovrei pensarci?” Quando osservai che la denuncia non gli avrebbe giovato, si levò in piedi e disse: “Vedremo”. Poi rapido mi venne incontro, credetti che volesse picchiarmi, sembrava anzi deciso a farla finita, ma si trattenne: “Farabutto” urlò. Non risposi, anzi giudicai opportuno che si sfogasse.
Salì in fretta sull’autocarro, chiuse lo sportello e disse: “Sarei curioso di sapere dove andrà”. Poi senza attendere risposta, scoppiò a ridere e aggiunse: “Buona villeggiatura”.
Allora risi anch’io e, quando il camion partì feci automaticamente il saluto militare. E seguitai a ridere, preso da un’ilarità che mi sollevava. E del maggiore mi restava quell’immagine sorridente e quell’augurio che tante volte aveva coronato l’attesa del treno, i ripetuti addii, gli abbracci, le raccomandazioni. Partiva a quel modo, e già stava vendicandosi.
Vidi l’auto che accelerava la corsa e non fui capace di staccarne gli occhi, pensavo che sarebbe caduto alla prima svolta, quella stessa sulla quale m’ero rovesciato quattro mesi prima. Era una coincidenza che aspettavo. Vidi dunque il camion che si allontanava saltellando, perché era vuoto, proprio come il mio, e aspettai che affrontasse la prima curva, giù in fondo alla discesa. Correva, il camion, il maggiore si fidava dei freni e i freni, infatti, funzionavano. Ma non avrebbe funzionato la ruota e la denuncia sarebbe rimasta tra i suoi pensieri, tra gli ultimi suoi pensieri, che i vermi avrebbero mangiato pochi giorni dopo. “Addio, maggiore” dissi. Ero triste.
L’autocarro si avvicinava alla curva, rallentò, cauto, e lo vidi sparire dietro la scarpata, lentamente. “Dunque, alla prossima” pensai. Incapace di tornare indietro, deciso ad assistere alla caduta, raggiunsi di corsa la svolta. L’autocarro correva ancora sulla strada, la distanza lo faceva apparire più piccolo, quasi il giocattolo che avevo immaginato. Sobbalzava per le buche del terreno, ma correva, lasciandosi dietro una nube di polvere rosa. Lo vidi che scompariva dietro un’altra curva, tra la sua polvere.
Cominciai a dubitare e presi il dado dalla tasca, per accertarmi che l’avevo tolto, e intanto mi chiedevo come mai la vite resisteva ancora. Poi dissi che la cosa sarebbe successa certamente; quella strada, sino al fiume, contava un centinaio di curve, e molto più pericolose della prima. La vite sarebbe saltata. L’autocarro non doveva giungere al fiume. Se vi fosse giunto, il maggiore poteva avvisare per telefono i posti di blocco e i comandi di zona. E l’avrebbe fatto. Allora, per ultimo scampo, mi sarebbe restata la boscaglia, ma per quanti giorni? Per quanti giorni può un ufficiale girare per la boscaglia con una carta del secolo scorso? O sul bassopiano, o sulle montagne, chiedendo ospitalità ai briganti, agli struzzi, agli eventuali pastori, alle iene? Se l’autocarro non fosse caduto, potevo serenamente recarmi al comando più vicino e costituirmi. Avrei almeno salva la vita, e dovevo salvarla. Ma sarebbe caduto.
Restai sul ciglio della strada, affranto da questi pensieri, aspettando che il camion riapparisse giù in fondo alla valle. Da quell’altezza, la strada sembrava un nastrino rosa sulla groppa di una bestia addormentata. Restai un’ora ad aspettare e la speranza rinacque. Era caduto. Ancora dieci minuti e sarei andato via, anzi avrei fatto la strada sino al fiume, scrutando nelle forre, e quindi raggiunto l’altro ciglio seguendo la scorciatoia. “Ancora dieci minuti e sarò salvo” dicevo. “Se il camion non passa, sono salvo e mi imbarco.” Ormai il camion non sarebbe passato più. Controllavo il tempo sull’orologio.
Vidi avanzare dal ciglio un vecchio indigeno, andava verso il fiume e si fermò a qualche passo, aspettando che mi accorgessi di lui. Aveva la carta di sottomissione infissa nello spacco della canna. Gli sorrisi e lui proseguì, tetro e fiducioso, salutando. Non odorava affatto. “Bene” pensai. Mi distrassi un attimo a seguire il vecchio e, quando ripresi a scrutare nella valle, vidi il camion, piccolo come un topo turchino, percorrere lentamente il nastrino rosa. Lo percorreva lentamente, da topo equilibrista, ondeggiando nella polvere. Avanzava con una lentezza che era per me la più crudele irrisione, e il suo ritardo mi diceva che il maggiore aveva scoperto il danno ponendovi riparo.
Avanzava, dunque, lentamente (certo per evitare altre sorprese), poi scomparve tra i rami della boscaglia.
Ora, a che mi sarebbe servito quel denaro? Lo contai, erano cinquantamila lire.